di Reginald Rose - protagonista e regista Alessandro Gassman
e con Manrico Gammarota, Sergio Meogrossi, Giancarlo Ratti, Fabio Bussotti, Paolo Fosso, Nanni Candelari, Emanuele Salce, Massimo Lello, Emanuele Maria Basso, Giacomo Rosselli, Giulio Federico Janni
Un ritorno di Alessandro Gassman (forte di un’ultraventennale esperienza teatrale e cinematografica e del recente grande successo nel film “Caos calmo” di Antonello Grimaldi) nella duplice veste di attore e regista con uno spettacolo tratto da un film di successo: Twelve angry men, opera prima di un trentatreenne Sidney Lumet che, nel lontano 1957, decise di portare sul grande schermo la fortunata sceneggiatura scritta tre anni prima da Reginald Rose per un teledramma. Con questo film interpretato da Henry Fonda il regista Sidney Lumet ottenne numerosi riconoscimenti tra cui l'Orso d'Oro al Festival di Berlino e una nomination all'Oscar.La vicenda dello spettacolo, come quella del film, ha luogo a New York nel 1950. Si è conclusa in aula l’escussione delle prove circostanziali e delle testimonianze contro un giovane ispano-americano accusato di parricidio. Ora una giuria popolare composta da dodici uomini è chiusa in camera di consiglio per decidere il destino dell’imputato: i giurati devono raggiungere l’unanimità per mandare a morte il giovane che si dichiara innocente. Tutti sembrano invece convinti della sua colpevolezza. Tutti tranne uno (Alessandro Gassman) che, con meticolosità e intelligenza, costringe gli altri a ricostruire i passaggi salienti del processo e, poco alla volta, in un dibattito sempre più acceso e personalizzato che arriva, a tratti, fino allo scontro fisico, ne incrina le certezze, insinuando in loro il principio secondo il quale una condanna deve implicare la certezza del crimine al di là di ogni ragionevole dubbio. Uno a uno, tutti i giurati, in una sorta di psicodramma in cui affiorano pesanti elementi autocritici, finiscono col convincersi dell’innocenza del giovane superando pregiudizi anche razziali che, all’inizio, stavano per indurli a esprimere un frettoloso giudizio di condanna. Alessandro Gassman, che affronta con questo testo la sua seconda regia teatrale, dichiara: "L’interesse per il lavoro di regia è stato per me un naturale approdo. Dopo più di vent’anni di teatro militante in qualità di attore e due stagioni di successo con la mia prima regia, (“La forza dell’abitudine” di Thomas Bemhard) ho inteso proseguire la mia ricerca affrontando un testo coinvolgente e profondamente ideologico, che mi permette di entrare nelle varie e sfaccettate tipologie umane e caratteriali, colte in una situazione claustrofobica nella quale emergono gli aspetti umani più contraddittori. I temi trattati da Twelve angry men – conclude Gassman – sono in questi anni più che mai al centro di dibattiti internazionali, dalla legittimità della pena di morte al dramma sociale del razzismo".
Lo spettacolo, tutto al maschile, ha per interpreti dodici attori nei panni dei dodici giurati. Nel film del 1957 la giuria popolare – spiega l’attore-regista – era tutta maschile poichè non potevano esserci nè donne, nè minoranze etniche. Per rendere il testo più vicino a noi ho inserito un giurato italo-americano e un cittadino dell'Est: una cosa impensabile per l’America degli anni Cinquanta.
Intervista ad Alessandro G. di Betty Zanotelli
Gassman, perché ha scelto «La parola ai giurati»?
Perché è un’opera che mi ha dato grandissime emozioni e perché ha una doppia valenza: come regista mi dà la possibilità di mettere in evidenza 12 distinte personalità e quindi di rappresentare buona parte della società di oggi. Il testo di Reginald Rose, poi, mi permette di toccare una problematica - la pena di morte - che mi sta particolarmente a cuore tanto più ora, alla luce della moratoria passata all’Onu (su proposta dell’Italia e strenuamente sostenuta dal ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, ndr) anche grazie al lavoro, una volta tanto, encomiabile dei nostri politici: lo spettacolo, dunque, ha un duplice significato: di intrattenimento, ma anche di messaggio, per il pubblico.
Lei è uno dei 12 giurati...
Questo è un allestimento realmente corale; io interpreto l’ottavo giurato, che si differenzia dagli altri solo perché all’inizio è l’unico che non crede alla colpevolezza di un ragazzo che ha apparentemente ucciso il padre. Sono molto contento degli esiti sin qui ottenuti soprattutto per la quantità di emozioni che il pubblico ci dice ricevere dallo spettacolo: io lavoro quasi esclusivamente per questo.
Perché un attore come lei ha accettato di partecipare alla fiction tivù (in onda il venerdì su Canale 5) "I Cesaroni"?
È stato mio figlio Leo di 9 anni a farmi scoprire questa serie televisiva che, tra l’altro, sta battendo ogni record di ascolti, cosa che non mi stupisce affatto perché è ben fatta, non volgare, racconta una famiglia italiana media. Mi faceva piacere, quindi, partecipare a una produzione che piace a mio figlio e ai suoi amici, senza contare che mi sono molto divertito a recitare con due colleghi come Elena Sofia Ricci e Claudio Amendola, miei amici da tempo. E poi, penso che I Cesaroni sia un lavoro molto simile alla miglior commedia all’italiana.
A proposito di tivù, lei è anche nel cast di "Pinocchio"...
Ho partecipato alla fiction per Raiuno che non so quando andrà in onda - forse sotto Natale - perché l’ho girata in inglese e la devo ancora doppiare. Io ho il ruolo di Carlo Collodi, l’autore di Pinocchio, che diventa poi anche voce narrante, e la cui vita è raccontata come in una piccola storia separata dal resto. Avevo accanto a me Margherita Buy, Violante Placido, Luciana Littizzetto, Bob Hoskins che interpreta Geppetto. La cosa più interessante è stata avere l’occasione di lavorare con un valido attore come Hoskins con cui ho parlato del teatro, soprattutto quello inglese, che è la mia grande passione».
Suo padre Vittorio è stato uno dei più carismatici attori italiani eppure si ha la sensazione che venga ricordato troppo poco...
L’Italia, si sa, è un Paese con la memoria corta, con poco rispetto per chi ha fatto cose importanti, e non mi riferisco solo a Vittorio Gassman. È sintomatico che mio padre muoia nel giugno del 2000 e a settembre il festival del Cinema di Venezia neppure lo ricorda; sembra una cosa degna di Scherzi a parte più che di un festival del cinema. Quella dimenticanza lascerà un segno, farà sì che il responsabile della Mostra dell’epoca di cui non rammento il nome (Alberto Barbera, ndr) verrà ricordato come il direttore che si è dimenticato di Vittorio Gassman.
Intenso e drammatico, alle volte anche un pò troppo "arrabbiato".
Scenografia perfetta, tutti bravissimi, Gassman pure un bel figo, il che non guasta!
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