IN TAVOLA - ON THE TABLE

21 novembre 2007

Ieri sera a teatro...

VITA DI GALILEO
Presentato dal Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e dal Teatro degli Incamminati, ecco un testo straordinario, uno degli indiscussi capolavori teatrali del Novecento: “Vita di Galileo" di Bertolt Brecht con la regia di Antonio Calenda e con protagonista, Franco Branciaroli. Unanime, la critica ha giudicato questa interpretazione di Branciaroli uno dei punti più alti, per maturità artistica e professionale, raggiunti dall’attore.

Così scrive Magda Poli su "Sipario":
"Perno della rigorosa e lucida messinscena di Antonio Calenda è l’interpretazione che il bravo Franco Branciaroli dà di Galileo, nel quale la dismisura del genio e la voracità di sapere si fondono con le umane debolezze e le paure. Sotto un cielo da scrutare notte dopo notte il Galileo di Branciaroli è soprattutto un uomo. È l’intellettuale come Brecht (del quale porta la grigia giacca mentre gli altri attori indossano costumi d’epoca) che rivendica il libero esame delle “novità” nate dall’osservazione, senza lasciarsi condizionare da vincoli esterni. Galileo è un uomo che crede che la ragione di ciascuno non debba rinunciare allo spirito critico facendosi schiava dell’intelletto altrui, ma soccombe e perde. Branciaroli, affiancato in scena da un’ottima compagnia, ne cesella il lucido sentire, la rabbia della ragione prima di far scivolare il suo Galileo, dopo l’abiura, in un bofonchiare e borbottare da vecchio stanco".

“Vita di Galileo” è l’ultima opera di Brecht, frutto di un lavoro lungo e faticoso, tanto che l’autore ne propose tre versioni successive, elaborate tra il 1938 e il 1948. L’ultima e la definitiva fu rappresentata nel ’57, quando Brecht era ormai morto. La storia, discussa ed emblematica del grande astronomo pisano, ha come punto fondamentale e imprescindibile l’abiura cui la Chiesa lo costrinse quand’era ormai vecchio e quasi cieco.

Ed è questo l’elemento cardine su cui, nelle tre successive edizioni, si trovò a dibattere il drammaturgo tedesco: nella prima stesura, infatti, Galilei abiura per potere, seppure strettamente sorvegliato, continuare a lavorare, mentre nell’ultima arriva alla grande rinuncia senza secondi fini, semplicemente – e molto umanamente – per “paura del dolore fisico”.
A testimonianza dell’inquietudine da cui Brecht fu attanagliato per dieci anni di fronte all’analisi di questo straordinario personaggio, un suo allievo racconta che durante le prove dello spettacolo il drammaturgo soleva ripetere la stessa frase: “Il mio compito non è dimostrare che ho avuto ragione sino ad ora, ma capire se davvero ho avuto ragione”.
Sono molti i temi che Brecht affronta in questo testo: c’è non solo il problema etico, filosofico, scientifico che la rivoluzione galileiana pose al mondo intero, ma anche il tema eterno del rapporto tra potere e libertà della scienza e quello dei conflitti di coscienza del ricercatore per l’uso che potrà essere fatto delle sue scoperte.

«Per comprendere a fondo il senso e le peculiarità di questo testo – commenta Antonio Calenda – è necessario risalire alle grandi motivazioni per cui fu scritto. Impossibile non correlare l’ultima definitiva versione (in cui appunto l’autore condanna l’abiura di Galileo) con l’atteggiamento di certi scienziati a lui coevi, che proprio in quegli anni si erano resi indirettamente colpevoli del disastro di Hiroshima. Brecht ci ha donato un testo presago, turbato dall’intuizione dei drammi che l’uso distorto della scienza avrebbe provocato all’umanità».

La vicenda inizia nei primi anni del 1600 quando Galileo, docente di matematica a Padova, cerca di dimostrare la validità delle teorie copernicane aiutato da Andrea Sarti (figlio della sua governante) che gli sarà vicino fino alla fine. Proprio a Sarti, Galileo, ormai morente, affiderà il difficile compito di salvare le sue ricerche. Nel dramma brechtiano la vita di Galilei oscilla tra l’entusiasmo di scoperte destinate a rivoluzionare la scienza, la speranza di poter continuare le sue ricerche grazie a potenti alleati (Cristoforo Clavio, astronomo del Collegio Vaticano, e il granduca Cosimo de’ Medici), l’amarezza per le diffide della Santa Inquisizione, la rinata fede nel nuovo pontefice Urbano VIII e l’amara sconfitta finale. In mezzo a tutto questo, riecheggiano, lontani, gli eventi dell’epoca, primo fra tutti la terribile epidemia di peste che non impedisce a Galileo di proseguire, con immutato entusiasmo e rinnovata lucidità, le sue ispezioni celesti.


Una rappresentazione impegnata, ma mai noiosa.
Branciaroli bravissimo!
Complimenti anche agli altri dieci interpreti!

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