E per questa ricetta mi spingo fino all'estremo nord-est montagnoso della regione, nelle splendide vallate del
Cadore, teatro di aspre battaglie durante la prima guerra mondiale, dove è ancora possibile vedere le trincee e le postazioni degli eserciti opposti, quello italiano e quello austroungarico.
Ma regione anche generosa di bellezze ineguagliabili, come il
Lago di Misurina, dove le particolari caratteristiche climatiche rendono l'aria particolarmente adatta a chi soffre di patologie respiratore. Infatti, nei pressi del lago si trova l'unico centro in Italia per la cura dell'asma infantile.
O come l'imponente massiccio delle
Tofane che sovrasta la vipposa
Cortina, rinomata località turistica invernale, che ha ospitato le
Olimpiadi invernali del 1956 e ancora oggi è teatro di numerosi eventi sportivi di importanza internazionale. Ma che ha chiesto con un referendum nel 2007 di essere annessa alla provincia di Bolzano, e nonostante la massiccia e positiva volontà da parte dei cittadini, la questione è ancora in atto. Per arrivare fino a
Sappada, tranquilla località quasi sperduta al confine con il Friuli e l'Austria, dove ho avuto il piacere di trascorrere spensierate giornate estive con cari amici.
Ed ogni volta che mi reco in quei luoghi e faccio quella strada mi viene sempre un tuffo al cuore quando passo per Longarone, e mi balza agli occhi quel gigante fantasma che ormai in disuso ancora incute paura e soggezione.
Il 9 ottobre 1963 il paese fu colpito dal disastro del Vajont, una strage causata da una frana staccatasi dal monte Toc, e precipitata nel bacino artificiale creato dalla diga del Vajont, provocando un'onda che scavalcò la diga e travolse il paese sottostante, distruggendolo e provocando 1.910 morti. Luogo di confine, in equilibrio fra il mare e le sue rotte lontane, i monti che lo collegano al cuore dell’Europa, e la pianura che lo proietta verso terre fertili e generose, il Veneto, con le lagune e i suoi estuari e con le sue genti dalle molteplici abitudini, ha creato uno dei ricettari più ampi e completi che l’Italia possa vantare. La presenza del Garda, il più grande lago italiano, e del mare, nella parte meridionale della regione, sono entrambi fattori che influiscono notevolmente sul clima temperandone le caratteristiche continentali. L’area costiera, seppur afosa d’estate, presenta inverni moderatamente freddi, mentre sulle sponde gardesane il clima è talmente mite da consentire la coltivazione di olivi e agrumi. Tali caratteristiche si attenuano e assumono connotazioni sempre più continentali via via che dalla fascia collinare premontana si procede verso nord, dove si accentua il contrasto fra estati molto calde e inverni freddi. Il succedersi di fasce climatiche diverse e la conseguente varietà del paesaggio comportano, dal punto di vista gastronomico, una notevole varietà nelle pietanze tipiche, che affiancano alla raffinata cucina costiera i più rustici piatti di carne delle zone di montagna.
Dal punto di vista storico, il passato remoto del Veneto è legato a quello delle altre zone padane che, dopo la romanizzazione, furono vittima delle invasioni barbariche: territorio di passaggio, la regione subì infatti le scorrerie di Eruli, Ostrogoti, Sciiti e Longobardi. Furono proprio questi ultimi che, scontrandosi con i Bizantini per l’egemonia territoriale, contribuirono a creare una netta frattura tra la fascia costiera, legata a Bisanzio e ai suoi interessi marinari, e l’entroterra longobardo caratterizzato da esigenze commerciali diverse. Come le regioni limitrofe, anche il Veneto subì una fase di incertezza politica, concomitante a una prolungata depressione economica e sociale che durò sino all’anno Mille, quando le città incominciarono a organizzarsi in comuni. Questi, coinvolti nei contrasti fra papato e impero, non tardarono a unirsi sotto gli stendardi della Lega Veronese – poi fusasi con quella Lombarda – contro Federico Barbarossa, fautore del sistema feudale. Il successivo avvento delle signorie inaugurò un fortunato periodo di stabilità durante il quale Venezia, mentre da un lato cercava di spostare i propri interessi commerciali sempre più lontano verso Oriente, dall’altro, per costruirsi uno stato territoriale, avviava una politica di espansione verso la terraferma e stabiliva i suoi confini orientali sulle sponde del fiume Adda. Dopo quattro secoli di dominio la supremazia della Serenissima conobbe la battuta d’arresto definitiva nel 1797, quando la città di Venezia venne ceduta all’Austria da Napoleone Bonaparte. Pochi anni dopo, nel 1815, il Congresso di Vienna unificò il territorio alla Lombardia, inaugurando il Regno Lombardo Veneto, sotto il dominio asburgico.
Con queste premesse è facile intuire come la gastronomia regionale sia stata arricchita da contaminazioni di vario genere, derivanti non solo dalle culture confinanti come la lombarda e l’emiliana, ma anche da consuetudini di segno orientale e mitteleuropeo. I piatti essenziali della cucina veneta sono infatti apparsi solo in epoca moderna, quando i commerci veneziani introdussero una serie di ingredienti che, presto assorbiti dalla tradizione locale, contribuirono ad avviare una vera e propria rivoluzione gastronomica. Per rendersene conto, basta sfogliare un esempio tipico di ricettario dove, accanto alle numerose pietanze di riso (tra le regioni è la depositaria di più ricette) e di legumi – come i piselli del celebre risi e bisi, la minestra che si serviva ai Dogi il giorno di San Marco – vi sono piatti a base di fagioli (ben rappresentati dalla varietà di Lamon), tra cui la rinomata pasta e fasioj, e numerose preparazioni di polenta, prodotti entrambi originari del nuovo mondo.
Tra le preparazioni ittiche, spiccano invece le numerose versioni dello stoccafisso, qui chiamato baccalà, preparato nei modi più vari: alla vicentina con il latte, mantecato, alla cappuccina con uva sultanina e pinoli, alla trevigiana. E' curioso notare come il Veneto possa contare su un gran numero di ricette che comprendono l’uso di prodotti ittici conservati più di altre regioni prive di sbocchi sul mare e perciò naturalmente inclini all’impiego di varietà salate o essiccate. Proprio a Venezia si cucina il cremoso baccalà mantecato che ricorda sia la brandade provenzale sia il sanremese stocco brand de cujun. La somiglianza sembra derivare da uno scambio gastronomico-culturale avvenuto via mare anziché via terra, dal momento che non esistono preparazioni di questo genere in nessun’altra provincia tra Venezia e la Liguria.
Sempre in tema di pietanze ittiche, un altro piatto veneziano assai noto sono le sarde e le sfoglie (sogliole) in saor, ossia pesci fritti, uniti a cipolla soffritta, aceto, zucchero, pinoli e uvette, menzionate anche da Carlo Goldoni in una delle sue commedie: “…senti, fio mio, tolè la sportelletta, voggio che andé da bravo a farme na spesetta. In pescaria… del pesce in quantità… un poche de sardelle vorrai mandar a tor, per cucinarle subito e metterle in saor…” (Le donne di casa mia, 1755). Nonostante l’abitudine di conservare sott’aceto pesci, carni e verdure sia largamente diffusa in diverse regioni italiane, per lo più con la denominazione di scapece o scabecio – derivazione linguistica e gastronomica dell’escabeche spagnolo – la variante veneta è invece detta “saor”, ossia sapore, e per via dell’uvetta sembra piuttosto rifarsi a gusti e abitudini mediorientali.
La presenza delle spezie – le preziose droghe di cui Venezia deteneva il primato commerciale – caratterizza molteplici preparazioni. Il largo uso di aromi distingue la cucina veneziana dalla tradizione culinaria di altre regioni che impiegavano i “sapori” più per conservare i cibi che per condire le pietanze.
Per quanto riguarda invece le contaminazioni derivate da realtà più vicine, bisogna ricordare che i confini del Veneto, estesi sino al fiume Adda, comprendevano in origine anche alcune province attualmente lombarde. Uno dei tanti segni dell’intenso e fruttuoso dialogo gastronomico con la vicina regione è la mostarda, che a Cremona viene confezionata con frutta assortita intera. Via via che ci si inoltra nel Veneto, invece, la preparazione si limita a comprendere mele cotogne tagliate a pezzi, con aggiunta di mele e pere, cotte separatamente in uno sciroppo di acqua, vino e zucchero sin quando la frutta non è completamente sfatta (ne esistono anche varietà di un solo frutto). Al contrario, un piatto “esportato” in Lombardia è la vicentina polenta e osei, diffusa nel Bresciano, nel Bergamasco e nel Milanese con il nome di polenta e usei.
Non è da tralasciare la serie di paste con ripieno di carne e verdure diffuse dalla Carnia sino al Bergamasco, passando per il Bellunese, il Trentino e il Bresciano: ne sono esempio i
cjalsons carnici che a Cortina diventano i
casunzièi, a Modena
ciaroncié, e a Brescia e Bergamo
casonsei o casoncelli (
da La Cucina del Corriere della Sera).
Questa ricetta viene appunto da suddetta rivista on-line, però leggermente modificata con l'aggiunta della cipolla per insaporire il ripieno e della patata lessa per asciugarlo meglio (troppo pan grattato a me non piace) e rivista nelle dosi: le ho dimezzate e mi sembrano perfette per 4/6 persone, dipende dalla voracità delle bocche da sfamare :-) ... ma nella ricetta originale parlavano di doppia quantità per solo 4 persone! :-)
Per 40/45 ravioli grandi:
(diametro cerchio 10 cm., ma forse erano troppo grandi :-)
per la pasta:
200 g di farina 0
1 uovo
1 dl di latte
per il ripieno:
500 g di barbabietole rosse
(vanno bene quelle pronte in busta)
1 patata media lessa
2 cucchiai di pane grattugiato
1 uovo piccolo
40/50 g di ricotta
mezza cipolla tritata fine
una noce di burro
olio extravergine di oliva
per condire:
burro fuso
parmigiano grattugiato
semi di papavero
Ripieno: grattugiare le barbabietole con una grattugia grossa. Sciogliere in una padella una noce di burro con un po' di olio e fare rosolare/stufare la cipolla. Aggiungre le barbabietole e cuocere circa 10 minuti, regolare di sale e lasciare asciugare bene. Trasferire le barbabietole in una terrina e lasciarle raffreddare. Unire poi la patata passata nello schiacciapatate, la ricotta, l'uovo e il pangrattato, l'impasto deve diventare abbastanza consistente. Se possibile, lasciarlo riposare in frigo anche mezza giornata, o farlo la sera per la mattina dopo, in questo modo i sapori si amalgameranno meglio.
Ravioli: lavorare insieme la farina, le uova e il latte fino a ottenere un impasto omogeneo, io ho dovuto aggingere 30 g di farina in più. Lasciarlo riposare una ventina di minuti sulla spianatoia coperto con una ciotola. A piccoli pezzi alla volta, tirare una sfolgia sottile (con il ken mi ono fermata alla tacca 6). Con un tagliapasta rotondo ricavare dei dischi. Mettere al centro di ogni disco un cucchiaino di ripieno (o quanto ne occcorre, dipende dalla grandezza dei ravioli), poi ripiegarli a metà in modo da ottenere delle mezzelune. Premere delicatamente con le dita sul ripieno ed intorno per far usciire l'aria (altrimenti in cottura si gonfiano e potrebbero creparsi) e sugli orli per sigillarli bene (è più lungo e difficile a scriverlo che a farsi :-). Con i rebbi di una forchetta sciacciare sul bordo tondo della mezzaluna per decorazione e per un ulteriore sigillatura. Oppure usare l'attrezzo per fare i ravioli, che ogni volta però mi fa arrabbiare e lo relego in un angolo :-).
A mezzaluna è la loro forma originale, però si possono fare anche a triangolo, tagliando con la rotella dei quadrati di pasta, mettendo il ripieno al centro e sovrapponendo poi la pasta unendo due angoli: con la rotella poi si taglieranno bene i due bordi che si sigilleranno tra di loro.
Cottura: lessare i ravioli in abbondante acqua leggermente salata (cottura breve, perchè la pasta è molto fina), scolarli con il mestolo forato e spadellarli con burro fuso, sistemare nei piattie cospargere con i semi di papavero e il formaggio grattugiato. Servirli subito, ben caldi.
Conservazione: meglio mangiare in giornata i ravioli fatti, avendo l'accortezza di sistemarli sugli appositi graticci, oppure su un canovaccio spolverato abbondantemente di semola. Essendo il ripieno umido, non si possono conservare in frigo per l giorno dopo perchè c'è il pericolo che si impacchino. Meglio allora congelarli, prima stesi su un vassoio spolverato di semola, e poi una volta duri si possono riporre in scatole o in sacchetti (a strati con un foglio di carta forno tra uno strato e l'altro).