Non conosco molto questa regione, ci sono passata un paio di volte con l'autostrada per scendere in Puglia, ma ho il ricordo di una vacanza con
tanti bambini piccoli al seguito in un villaggio/camping a Porto San Giorgio, dove loro si divertivano un mondo con gli animatori e la grande piscina attrezzata con funghi, funghetti e scivoli vari e io mi scatenavo in quella mezzora di libertà in un
negozio molto chiccoso che quell'estate aveva scelto di supersaldare tutte le collezioni presenti (e che collezioni! :-). Non molto lontano, a Casette d'Ete, c'è l'azienda di
Della Valle (quasi
centenaria), con
spaccio annesso, una delle prime aziende italiane ad aver costruito una palestra per il personale ed un asilo per i figli dei dipendenti.
Grazie a una natura ricca e varia, le Marche offrono alla gastronomia
locale una serie di prodotti ottenuti dall’incessante cura della terra,
oppure nati spontanei dal sottobosco o ancora derivati dal mare. Il
risultato è un ricettario che, accanto a cereali, legumi, verdure e
tartufi, porta in tavola carni e pesci e, attraverso l’accostamento di
materie prime semplici e genuine, elabora preparazioni dal carattere
rustico e ben definito ma non per questo prive di eleganza.
La
regione si sviluppa dalla dorsale appenninica al Mare Adriatico e
confina a nord con l’Emilia-Romagna, a ovest con la Toscana e l’Umbria, a
sud con l’Abruzzo e, seppure in piccolissima parte, con il Lazio. Il
territorio è prevalentemente collinare, con fasce montuose che diventano
più evidenti via via che si risale l’Appennino e poche zone
pianeggianti in prossimità del mare. La costa è intervallata da un solo
rilievo, il Monte Conero (alto poco meno di 600 metri), che dà nome al
tratto di riviera circostante e che, con la complicità del terreno
calcareo e di un clima mite, crea un habitat naturale molto diverso
rispetto a quello offerto dall’area limitrofa. La presenza di numerosi
fiumi che attraversano il territorio marchigiano diretti verso il Mare
Adriatico ha favorito lo sviluppo di un comparto agricolo fiorente, che
comprende cereali, legumi, ortaggi, olivi, viti e alberi da frutto.
Dal punto di vista storico, nell’arco dei secoli le Marche sono state
terra di dominio e stanziamento di diverse popolazioni, le cui tracce
sono arrivate fino ai giorni nostri. I primi a occupare il territorio
furono i Galli Senoni che, intorno al V-VI secolo a.C., si insediarono a
nord del fiume Esimo e fondarono la città di Senigallia, che
successivamente divenne la loro capitale; a riprova della forte eredità
culturale trasmessa dal popolo celtico, ancora oggi nella regione vi
sono enclave linguistiche in cui si parla un dialetto con influenze
francofone. Più o meno nello stesso periodo, la fascia appenninica era
stata occupata dagli Umbri, mentre più a sud si erano stabiliti i
Piceni, che ben presto trasmisero i propri costumi agli abitanti del
luogo: c’è infatti chi ipotizza che la sagra di Sant’Emidio – che si
festeggia ad Ascoli Piceno il 5 agosto – trovi gli ascendenti negli
antichi riti vendemmiali di quel popolo. Completano il quadro i Faleri,
insediati nel Fermano dove avevano fondato la ricca Faleria (poi
divenuta Augusta, rinomato centro di produzione agroviticolo). Dopo la
caduta dell’Impero Romano, con le invasioni barbariche del V secolo
d.C., la regione risultò divisa in due aree distinte: una, a sud di
Ancona, occupata dai Longobardi e l’altra, comprensiva delle zone
settentrionali, gravitante verso Ravenna e l’influenza bizantina. In
seguito alla calata dei Franchi, fu proprio quest’ultima porzione di
territorio – che nel frattempo era stata unita alla Romagna e donata al
Papa – a diventare la base del potere temporale dei pontefici.
Poco
prima dell’anno Mille, il termine marca cominciò a essere usato per
indicare i territori non soggetti alla sovranità della Chiesa, mentre il
plurale, marche, venne introdotto solo in un’epoca successiva per
sottolineare il fatto che alla base della realtà politica regionale vi
fosse l’unione di terre giurisdizionalmente separate. Successivamente,
alle autonomie comunali – che videro la competizione di Ancona e Venezia
per il commercio marittimo – seguirono le grandi casate con le potenti
famiglie dei Montefeltro (a Gubbio e Urbino) e dei Malatesta (a Rimini e
Pesaro). Nonostante i molteplici tentativi del papato, che fece il
possibile per contrastare il processo di disgregazione politica, il
potere restò dunque sempre frammentato tra gruppi di tiranni spesso in
conflitto fra loro. Solo Cesare Borgia, figlio di papa Alessandro V,
intorno al 1500 riuscì a mettere in atto l’unificazione politica della
regione, contrastando efficacemente la forza delle signorie locali
attraverso la riunificazione di quasi tutta la marca in un forte stato
dell’Italia centrale. La mossa successiva avvenne per mano della Chiesa
che, a seguito del rafforzamento dell’autorità papale, nel 1532
sottomise Ancona, quindi Camerino e il ducato di Urbino. La situazione
che seguì, con l’amministrazione dello Stato pontificio sovrapposta alla
fitta e composita rete delle autonomie locali, si protrasse fino al
1860 quando le Marche furono annesse al Regno d’Italia. Alla seconda
metà del XIX secolo risale anche lo spostamento dell’asse di
comunicazione tra nord e sud, dalla sponda adriatica alla direttrice
Firenze-Roma-Napoli; la regione, trovatasi improvvisamente isolata,
riuscì comunque a conservare una discreta ricchezza, e quando
cominciarono le prime migrazioni le Marche ebbero un numero assai
contenuto di emigranti.
Nonostante un retaggio storico complesso e importante, non sono rimasti
piatti tali da testimoniare un passato gastronomico ricco. Le
motivazioni sono legate al fatto che la Chiesa non diffuse la propria
cucina al di fuori dei suoi palazzi e inoltre, a livello politico, il
territorio rimase sempre frammentato in un composito mosaico di
legazioni, presidii e castelli non in grado di dar vita a signorie pari,
per potere e prestigio, a quelle di Milano, Venezia o Firenze. Ecco
dunque il perché di una cultura gastronomica di tono minore e meno
sontuosa rispetto ad altre realtà italiane. Ciò premesso, quella
marchigiana è pur sempre una cucina non priva di una certa raffinatezza e
in grado di vantare sia una ricchissima gastronomia marinara – San
Benedetto del Tronto è uno dei più importanti centri ittici d’Italia e
ne costituisce il principale mercato all’ingrosso –, sia una sapida
tradizione dell’entroterra che si fregia di prodotti preziosi ed
esclusivi come il Tartufo bianco di Acqualagna.
E' importante
valutare, nella formazione della cucina regionale, l’influenza
esercitata dalle contaminazioni con i territori limitrofi: infatti, la
fascia settentrionale della regione da sempre è in continuo dialogo con
la Romagna – con la quale condivide alcuni aspetti gastronomici –,
mentre a sud del capoluogo si respira un’atmosfera più propriamente
centroitaliana, con forti influenze abruzzesi nella zona picena.
Rimanendo in tema, non si deve tralasciare il fatto che le Marche hanno
esportato alcune preparazioni nelle terre circostanti. E' il caso della
porchetta, la celebrata maialina (che non dovrebbe superare i 50 kg di
peso) svuotata, disossata, farcita con sale, pepe, finocchio selvatico e
aglio, e poi, una volta cucita, cotta accuratamente su uno spiedo
oppure in un capace forno da pane: il metodo e il tempo di cottura sono
fondamentali per garantire la giusta croccantezza della cotenna e la
morbidezza delle carni. Il piatto si può consumare anche freddo ma in
questo caso la cotenna risulta più tenace. La preparazione, di origine
umbro-marchigiana, con il tempo si è diffusa anche in altre regioni
dell’Italia centrale sino a giungere nel Lazio, dove è diventata
addirittura uno dei piatti più rinomati del ricettario regionale. Mentre
altrove il nome è associato al tipo di carne utilizzata, ossia il
maiale, nelle Marche la porchetta è anche una modalità culinaria.
Infatti, con gli stessi ingredienti usati per il ripieno del maiale, si
insaporiscono conigli, pesci d’acqua dolce e garagoli, le pregiate
lumachine di mare torricella o torretta, chiamate così per via del
guscio allungato. Altro metodo di cottura regionale è quello in
potacchio, una sorta di umido destinato prevalentemente a carni bianche
(pollo, coniglio e agnello), che richiede una lenta e paziente cottura e
prevede l’aggiunta di ingredienti saporiti come aglio, peperoncino,
rosmarino, vino bianco e olio.
Cercando qualche ricetta marchigiana ho scoperto che in questa regione sono produttori di un tipo di cavolfiore tardivo chiamato cavolfiore di Fano.
Le Marche sono considerate una regione ideale per la coltivazione dei
cavolfiori, con notevoli differenze tra le varietà ottenute nei diversi
ambiti di coltivazione. Il
Cavolfiore di Fano è frutto di una
sperimentazione compiuta dai ricercatori dell’università di Bologna, poi
proseguita nell’ateneo anconetano, al fine di ottenere una pianta
dotata di caratteristiche differenti rispetto alla preesistente varietà
di Jesi. Rispetto a quest’ultima si presenta di maggiore dimensione, con
colore bianco più intenso e con gusto più sapido. Il Cavolfiore di Fano
viene piantato a tarda estate (agosto-settembre) e raccolto tra gennaio
e febbraio; il peso alla commercializzazione è di circa 3 chilogrammi.
Ha colore bianco candido ed è caratterizzato da cimette ben sviluppate e
sode. Pur essendo considerato un cibo
povero, il cavolfiore viene
particolarmente apprezzato nella cucina naturale per le sue proprietà
benefiche (
foto da sementilarosa).
Info e ricetta da
La Cucina del Corriere della Sera.
Per 4 persone:
1 piccolo Cavolfiore di Fano
800 g di patate farinose
1 porro
2 spicchi di aglio, facoltativi
1 dl di panna fresca *
1 dl di latte *
pane casereccio **
erba cipollina o prezzemolo per guarnire
olio extravergine di oliva
qualche foglia di salvia fresca
* ho messo solo 300 ml di latte
** va benissimo quello vecchio avanzato
- Sbucciare, lavare ed affettare il porro finemente e farlo appassire in una casseruola (meglio se antiaderente) in un paio di cucchiai di olio con
uno spicchio di aglio sbucciato e schiacciato.
- Nel frattempo lavare e dividere il
cavolfiore in cimette, sbucciare le patate e
tagliarle a cubetti.
- Aggiungere le verdure al soffritto, far insaporire e poi coprire a filo con acqua fredda. Portare a ebollizione,
salare (o aggiungere il dado homemade)
e lasciare sobbollire, con coperchio e a fuoco basso, per una mezzoretta, le verdure dovrnno risultare tenerissime.
- Lasciare
intiepidire e frullare con un minipimer.
- Aggiungere quindi la panna e il latte, riportare a bollore e cuocere a fiamma bassa (e meglio se con uno spargifiamma perchè tenderà ad attaccarsi sul fondo ) per altri 10 minuti.
- Tagliare il pane a tocchetti e tostarlo in padella o sotto al grill, facendolo rosolare con un paio di cucchiai di olio, qualche foglia di salvia e uno spicchio di aglio tritato. Io aggiungo anhe un paio di cucchiai di formaggio grattugiato (qualsiasi tipo va bene) per insaporirlo ulteriormente.
- Servire la zuppa ben calda con i crostini di
pane e una spolverata di erba cipollina o prezzemolo tritati.