Ieri pomeriggio a teatro...
Moby Dick
di Herman Melville
con Giorgio Albertazzi - Emiliano Broschi - Marco Cacciola - Timothy Martin
Giuseppe Papa - Fabio Pasquini - Annibale Pavone - Enrico Roccafort - Rosario Tedesco
regia di Antonio Latella
di Herman Melville
con Giorgio Albertazzi - Emiliano Broschi - Marco Cacciola - Timothy Martin
Giuseppe Papa - Fabio Pasquini - Annibale Pavone - Enrico Roccafort - Rosario Tedesco
regia di Antonio Latella
Il celeberrimo romanzo di Melville è il resoconto di una lunga caccia alla balena compiuta attorno al 1840 a bordo del Pequod, salpando dall’isola di Nantucket, la capitale americana della “baleneria” situata a 48 km a sud di Cape Cod nello stato del Massachusetts. Il Pequod è comandato dal capitano Achab, un personaggio che assume connotati epici nella lotta contro Moby Dick, una combattiva e feroce balena bianca che in realtà è un capodoglio. Per tre lunghi anni Achab – “roso di dentro e arso di fuori dagli artigli fissi e inesorabili di un’idea incurabile” come scrive Melville – trascina l’intero equipaggio in una folle impresa di caccia alla guida di una nave che il vecchio capitano Peleg aveva adornato di trofei facendone, sono sempre parole di Melville, “un veliero cannibale che si ornava delle ossa cesellate dei suoi nemici”. Nel romanzo di Melville la vicenda è raccontata da Ismaele, un personaggio che aveva conosciuto Peleg e a sua volta, grazie a lui, il vecchio marinaio Bildad che l’aveva fatto entrare nell’equipaggio del Pequod.
Dall'Arena del 13 gennaio 2009:
Da quando, nel 1851, Melville diede alle stampe questo testo si sono scritte pagine e pagine, inizialmente molto critiche, sulla vicenda del capitano Achab e della sua folle lotta contro la balena bianca che lui insegue rabbiosamente per un intero decennio trascinando tutto l’equipaggio della baleniera Pequod in un’impresa disperata, carica d’odio e di morte. L’unico a sopravvivere sarà il giovane marinaio Ismaele (interpretato da Rosario Tedesco) a cui è affidato, nel romanzo di Melville, il compito di narrare la drammatica storia. Dopo il debutto a Spoleto, al Festival dei Due Mondi nell’estate del 2007, lo spettacolo ha girato con successo i principali teatri italiani ed è stato in cartellone per un’intera settimana all’Odeon di Parigi. Il successo dell’allestimento è in gran parte legato all’interpretazione di Albertazzi che, nei panni del vecchio e ormai morente protagonista, fornisce al suo personaggio le stigmate di un tormento profondo, autentico quanto interiorizzato e quasi intimo. La regia di Antonio Latella gioca molto sul carisma di Albertazzi, da molti critici definito «l’ultimo grande mattatore della scena italiana» che si trascina a fatica su una nave animata solo di fantasmi, si racconta a Ismaele affinché il giovane marinaio riferisca la storia ai posteri. «Chi sceglie il mare», dice Latella, «sceglie le leggi della natura e non dei cittadini. Chi sceglie il mare, sceglie di non camminare; sul mare non si cammina. È lui che ci conduce, che ci culla, ci sconquassa, che ci innalza verso il cielo, ci sprofonda verso gli abissi. Sono le acque a decidere di noi». Rispetto alla "storica" versione cinematografica del 1956 firmata John Huston con Gregory Peck nei panni di Achab e Richard Basehart in quelli di Ismaele, questo Moby Dick teatrale guarda più intensamente agli aspetti umani e interiori dell’opera nell’interpretare le grandi metafore esistenziali che hanno ispirato Melville.
"Moby Dick", un viaggio verso l'ignoto
Singolare e non privo di eccessi l'allestimento firmato da Latella. Giorgio Albertazzi è un intenso Achab. Buona prova della compagnia.
«Mutilerò il mio mutilatore». No, sbaglia la sua profezia Achab, indomito capitano coraggioso, che da quarant’anni dà la caccia alle balene e che di una di esse, la più feroce, la più imponente, ha fatto non solo un acerrimo nemico al quale ha già sacrificato parte di una gamba ma anche e soprattutto un’ossessione, un indefesso rovello interiore. A tal punto Moby Dick ha preso possesso di lui da diventarne una sorta di alter ego o comunque un essere con il quale la sfida resta perennemente aperta sino a un’inevitabile resa finale. Ma quale dei due cederà all’altro? La fine è nota.
Del capolavoro di Hermann Melville poco resta nel singolare e fortemente simbolico allestimento (accolto al suo debutto al Nuovo da calorosi applausi) firmato Antonio Latella; né, conoscendo l’indole del regista, poteva essere altrimenti. La sua personalità lascia una traccia netta in uno spettacolo che, pur non privo di elementi di innegabile suggestione, risulta in qualche modo appesantito da una cifra stilistica in cui la bizzarria e l’estro si sposano alla poesia con esiti non sempre felici e soprattutto immediati.
Dare a una messinscena una chiara connotazione risulta interessante se sull’autore dal quale si parte non finisca per prevalere colui che lo rielabora. Cosa che invece accade in questo Moby Dick che ha in Giorgio Albertazzi un intenso protagonista, circondato da una compagnia che si nuove con discreto agio.
In una scenografia che, nella sua raffinata semplicità, conserva un che di maestoso, si muovono due mondi: quello degli ufficiali e dei marinai in severe uniformi bianco-nere e quello collocato su un piano sovrastante, del capitano Achab, da tempo immemore, sordo a qualunque richiamo vitale e invece dilaniato da un unico tormento: il desiderio incessante di catturare e dominare la balena bianca, quella creatura "oscura" di misteri, gravida di energia, quel mostro che rappresenta l’oltre, il dopo, il non conosciuto, il non esplorato: ciò che l’uomo immagina sia, ma non ha la certezza che sia.
Ecco, allora che in questa sorta di viaggio al termine della notte, ciò che spinge il testardo nocchiero è il dubbio e insieme la necessità di penetrare in soglie mai varcate, di spingersi al di là degli umani limiti. Tale e tanto è il suo desiderio da riuscire a trasfonderlo nell’animo del suo equipaggio e a consegnarlo immutato a colui che dovrebbe essere il suo "erede" o comunque colui che narrerà al mondo questa storia: Ismaele. Il ripiegamento interiore di Achab non si nutre solo della materia-base fornita da Melville ma, nella rielaborazione drammaturgica di Federico Bellini, trova ulteriore linfa in citazioni tratte da Dante e Shakespeare, segnatamente da Amleto.
In uno spettacolo che non convince del tutto ci sono, come si diceva, alcuni elementi di indubbia potenza. La scena in cui si racconta la prima caccia, fallita, alla balena ha una scansione pressoché perfetta con quei marinai impegnati allo spasimo, ciascuno in un compito specifico e tutti come divorati da una febbre che li rende quasi ebbri. C’è poi il momento in cui l’assenza delle parole e il ricorso al linguaggio dei segni (quello utilizzato dai sordomuti) sommerge tutto e tutti e rappresenta in modo perentorio e acuto insieme l’idea del silenzio del mondo, il silenzio della vita e dei suoni, inevitabile esito della fatale caccia alla balena bianca.
Albertazzi dà ad Achab tutta la stanchezza, la rassegnazione, il ripiegamento interiore di un uomo che sa, e desidera, consegnarsi alla scelta ultima, del non ritorno. I suoi ufficiali e marinai si muovono in armonia tra loro costruendo un buon affresco corale sottolineato anche dalle musiche (di Franco Visioli) che rendono il sapore dell’avventura-sfida. L’Ismaele di Rosario Tedesco appare discontinuo non riuscendo sempre a dare al suo personaggio il pathos di cui avrebbe bisogno.
di Betty Zanotelli - L'Arena del 15 gennaio 2009
Non sono una critica teatrale, nè tantomeno vado alla ricerca del pelo nell'uovo.
Ma a me e Tito (ho portato pure lui stavolta a teatro) questo Moby Dick nell'insieme è piaciuto. Sono due ore di spettacolo senza intervallo che scorrono intensamente, sia nell'intrepida emozione dell'avvistamento della balena (resa più viva e reale dallo sciabordio delle acque, dagli stantuffi della balena, dai canti e dalle grida dei marinai) sia nel silenzio ovattato delle geste mimate dai marinai stessi e nei monologhi del capitano, ormai allo stremo delle sue forze ma ancora perdutamente e cocciutamente animato da quella che è stata sempre la sua ragione, o meglio, la sua ossessione di vita.
Impareggiabile come sempreAlbertazzi, anche Tito ne è rimasto incantato, mi è spiaciuto l'aver perso giovedì pomeriggio il suo incontro in platea col pubblico (anni fa portai Max che ne rimase quasi stordito solo a sentirgli raccontare stralci della sua vita di artista), sicuramente ci avrebbe arricchito interiormente.
E il capitano conclude poi amaramente citando il più grande dei dubbi esistenziali che l'uomo rincorre da sempre: essere o non essere?
Dall'Arena del 13 gennaio 2009:
Da quando, nel 1851, Melville diede alle stampe questo testo si sono scritte pagine e pagine, inizialmente molto critiche, sulla vicenda del capitano Achab e della sua folle lotta contro la balena bianca che lui insegue rabbiosamente per un intero decennio trascinando tutto l’equipaggio della baleniera Pequod in un’impresa disperata, carica d’odio e di morte. L’unico a sopravvivere sarà il giovane marinaio Ismaele (interpretato da Rosario Tedesco) a cui è affidato, nel romanzo di Melville, il compito di narrare la drammatica storia. Dopo il debutto a Spoleto, al Festival dei Due Mondi nell’estate del 2007, lo spettacolo ha girato con successo i principali teatri italiani ed è stato in cartellone per un’intera settimana all’Odeon di Parigi. Il successo dell’allestimento è in gran parte legato all’interpretazione di Albertazzi che, nei panni del vecchio e ormai morente protagonista, fornisce al suo personaggio le stigmate di un tormento profondo, autentico quanto interiorizzato e quasi intimo. La regia di Antonio Latella gioca molto sul carisma di Albertazzi, da molti critici definito «l’ultimo grande mattatore della scena italiana» che si trascina a fatica su una nave animata solo di fantasmi, si racconta a Ismaele affinché il giovane marinaio riferisca la storia ai posteri. «Chi sceglie il mare», dice Latella, «sceglie le leggi della natura e non dei cittadini. Chi sceglie il mare, sceglie di non camminare; sul mare non si cammina. È lui che ci conduce, che ci culla, ci sconquassa, che ci innalza verso il cielo, ci sprofonda verso gli abissi. Sono le acque a decidere di noi». Rispetto alla "storica" versione cinematografica del 1956 firmata John Huston con Gregory Peck nei panni di Achab e Richard Basehart in quelli di Ismaele, questo Moby Dick teatrale guarda più intensamente agli aspetti umani e interiori dell’opera nell’interpretare le grandi metafore esistenziali che hanno ispirato Melville.
"Moby Dick", un viaggio verso l'ignoto
Singolare e non privo di eccessi l'allestimento firmato da Latella. Giorgio Albertazzi è un intenso Achab. Buona prova della compagnia.
«Mutilerò il mio mutilatore». No, sbaglia la sua profezia Achab, indomito capitano coraggioso, che da quarant’anni dà la caccia alle balene e che di una di esse, la più feroce, la più imponente, ha fatto non solo un acerrimo nemico al quale ha già sacrificato parte di una gamba ma anche e soprattutto un’ossessione, un indefesso rovello interiore. A tal punto Moby Dick ha preso possesso di lui da diventarne una sorta di alter ego o comunque un essere con il quale la sfida resta perennemente aperta sino a un’inevitabile resa finale. Ma quale dei due cederà all’altro? La fine è nota.
Del capolavoro di Hermann Melville poco resta nel singolare e fortemente simbolico allestimento (accolto al suo debutto al Nuovo da calorosi applausi) firmato Antonio Latella; né, conoscendo l’indole del regista, poteva essere altrimenti. La sua personalità lascia una traccia netta in uno spettacolo che, pur non privo di elementi di innegabile suggestione, risulta in qualche modo appesantito da una cifra stilistica in cui la bizzarria e l’estro si sposano alla poesia con esiti non sempre felici e soprattutto immediati.
Dare a una messinscena una chiara connotazione risulta interessante se sull’autore dal quale si parte non finisca per prevalere colui che lo rielabora. Cosa che invece accade in questo Moby Dick che ha in Giorgio Albertazzi un intenso protagonista, circondato da una compagnia che si nuove con discreto agio.
In una scenografia che, nella sua raffinata semplicità, conserva un che di maestoso, si muovono due mondi: quello degli ufficiali e dei marinai in severe uniformi bianco-nere e quello collocato su un piano sovrastante, del capitano Achab, da tempo immemore, sordo a qualunque richiamo vitale e invece dilaniato da un unico tormento: il desiderio incessante di catturare e dominare la balena bianca, quella creatura "oscura" di misteri, gravida di energia, quel mostro che rappresenta l’oltre, il dopo, il non conosciuto, il non esplorato: ciò che l’uomo immagina sia, ma non ha la certezza che sia.
Ecco, allora che in questa sorta di viaggio al termine della notte, ciò che spinge il testardo nocchiero è il dubbio e insieme la necessità di penetrare in soglie mai varcate, di spingersi al di là degli umani limiti. Tale e tanto è il suo desiderio da riuscire a trasfonderlo nell’animo del suo equipaggio e a consegnarlo immutato a colui che dovrebbe essere il suo "erede" o comunque colui che narrerà al mondo questa storia: Ismaele. Il ripiegamento interiore di Achab non si nutre solo della materia-base fornita da Melville ma, nella rielaborazione drammaturgica di Federico Bellini, trova ulteriore linfa in citazioni tratte da Dante e Shakespeare, segnatamente da Amleto.
In uno spettacolo che non convince del tutto ci sono, come si diceva, alcuni elementi di indubbia potenza. La scena in cui si racconta la prima caccia, fallita, alla balena ha una scansione pressoché perfetta con quei marinai impegnati allo spasimo, ciascuno in un compito specifico e tutti come divorati da una febbre che li rende quasi ebbri. C’è poi il momento in cui l’assenza delle parole e il ricorso al linguaggio dei segni (quello utilizzato dai sordomuti) sommerge tutto e tutti e rappresenta in modo perentorio e acuto insieme l’idea del silenzio del mondo, il silenzio della vita e dei suoni, inevitabile esito della fatale caccia alla balena bianca.
Albertazzi dà ad Achab tutta la stanchezza, la rassegnazione, il ripiegamento interiore di un uomo che sa, e desidera, consegnarsi alla scelta ultima, del non ritorno. I suoi ufficiali e marinai si muovono in armonia tra loro costruendo un buon affresco corale sottolineato anche dalle musiche (di Franco Visioli) che rendono il sapore dell’avventura-sfida. L’Ismaele di Rosario Tedesco appare discontinuo non riuscendo sempre a dare al suo personaggio il pathos di cui avrebbe bisogno.
di Betty Zanotelli - L'Arena del 15 gennaio 2009
Non sono una critica teatrale, nè tantomeno vado alla ricerca del pelo nell'uovo.
Ma a me e Tito (ho portato pure lui stavolta a teatro) questo Moby Dick nell'insieme è piaciuto. Sono due ore di spettacolo senza intervallo che scorrono intensamente, sia nell'intrepida emozione dell'avvistamento della balena (resa più viva e reale dallo sciabordio delle acque, dagli stantuffi della balena, dai canti e dalle grida dei marinai) sia nel silenzio ovattato delle geste mimate dai marinai stessi e nei monologhi del capitano, ormai allo stremo delle sue forze ma ancora perdutamente e cocciutamente animato da quella che è stata sempre la sua ragione, o meglio, la sua ossessione di vita.
Impareggiabile come sempreAlbertazzi, anche Tito ne è rimasto incantato, mi è spiaciuto l'aver perso giovedì pomeriggio il suo incontro in platea col pubblico (anni fa portai Max che ne rimase quasi stordito solo a sentirgli raccontare stralci della sua vita di artista), sicuramente ci avrebbe arricchito interiormente.
E il capitano conclude poi amaramente citando il più grande dei dubbi esistenziali che l'uomo rincorre da sempre: essere o non essere?
3 commenti:
Sul mio blog ho lanciato una nuova iniziativa. Se ti va, vieni a dare un'occhiata!
Ciao! Sai, anche a me piace molto il teatro ma purtroppo non vado mai...devo ripromettermi di andare più spesso! Se ti va di passare da me c'è un premio per te e l'invito alla mia raccolta!
Grazie Jelly, grazie Laura, sono passata e mi sono presa tutto, premi e banners!!!
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